Vivo nella fissità del tempo,
poiché da infante uccisero
ogni mio anelito di vita.
Vago bramoso per corridoi affollati
indossando una maschera di inattaccabile moralità.
I miei occhi si posano
su coloro nei quali percepisco la Vita.
Ne rubo l’ardore e ogni umana pulsione
perché possano scaldare quel gelo mortale
che mi ha inghiottito.
Riduco a brandelli anime vive e, deturpatele,
le lascio esangui o folli.
Sono stimato, adorato, temuto.
Per mestiere le persone si affidano a me
e io mi aggiro per le strade
cercando il plauso di un pubblico
che, istupidito e confuso dalle mie parole,
mi vede come Dio.
Suono un flauto magico a donne
di carne e sangue che rendo pazze,
schiave e adoranti.
Onnipotente, non temo nulla,
se non uno specchio che rifletta
l’assenza del mio volto
e la bruttezza del nulla,
e un bacio d’amore caldo e vivo
che mi rende furioso
perché rifuggo la vita,
la inseguo e la sfuggo
congelato in una maschera senza volto.
Dio, sì, sono un Dio condannato
ad una eterna distanza dall’umanità
nell’assordante solitudine della morte
mi fingo vivo e paralizzo ed incanto
stolte creature di ingenua bellezza
e per apparir di sembianza umana
succhio senza pietà e senza gioia
quella linfa vitale che compone
la grottesca maschera
che avvolge il mio volto
Inchiodato a metà sulla croce del mio destino immutabile
trascino l’unico braccio
sfuggito ai chiodi del nulla
e strappo baci,
e afferro carne fresca
e bevo il sangue di chi,
sapendo sorridere all’amore,
mi si avvicina e inciampa
nel legno che sorregge
l’involucro putrido
del mio essere morto.
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